Captain Fantastic - Sweet child of mine. Quando l'appartenenza conta più di tutto
Difficile cercare di esser esaustivi nel recensire da un punto di vista psicologico questo film del 2016, diretto dal regista Matt Ross e con Viggo Mortensen come protagonista.
Si tratta di un film denso, dai temi forti, ma allo stesso tempo molto scorrevole e con una colonna sonora straordinaria.
Trama e piccolo spoiler
La trama è di per sé molto semplice: Viggo Mortensen è il padre di sei figli con cui vive isolato dal resto della civiltà in un bosco del nord degli Stati Uniti. Lo stile di vita della famiglia è fondato sul totale contatto con la natura, nel rendere i figli fin da piccoli il più autonomi possibile in termini di capacità di procurarsi cibo, orientarsi nella foresta, combattere, arrampicarsi sulle rocce. Ad un intenso allenamento fisico corrisponde un’altrettanta imponente “educazione parentale” fondata sulla conoscenza profonda della dichiarazione dei diritti, della filosofia (la festa per eccellenza della famiglia è il Noam Chomsky Day, che sostituisce il Natale), col rifiuto dei modelli “imposta dal Sistema” e dalle religioni.
La madre dei ragazzi è ricoverata per una grave depressione che la porterà al suicidio: tutta la famiglia deve scegliere se recarsi al funerale della donna (che ha espresso la facoltà di esser cremata, secondo il proprio orientamento buddista), stante le profonde ostilità del padre di lei nel confronto del genero, reo ai suoi occhi di averla portata alla pazzia con il suo stile di vita estremo.
Il viaggio, le scelte, il confronto con il mondo “esterno”, porteranno il padre ed i figli a metter in discussione tutto il loro impianto valoriale ed educativo.
Proprio da uno dei figli (che fin dalle prime scene si intuisce avere “un ritmo” differente), che potremmo definire il paziente designato, la famiglia inizia ad attraversare una crisi.
Modelli, confronti e... appartenenza
Lo stile di vita della famiglia è decisamente estremo e molto differente dal modello della cultura occidentale e dominante: spesso il confronto è però impietoso a scapito dei modelli consolidati, innanzi a cui tutti i figli appaiono più istruiti, formati, riflessivi e molto più scaltri fisicamente.
Eppure a tutta questa superiorità non corrisponde uno stato di serenità e integrazione felice.
Non solo le difficoltà degli altri ad essere quelle fondamentali, dal mio punto di vista, ma proprio quelle della famiglia protagonista: pur vedendo confermati alcuni loro “credo” e la bontà del proprio stile rispetto a quello degli altri adolescenti, allo stile di vita delle altre persone... a far soffrire è la differenza che li separa dal resto della comunità.
Credo che sia sempre il tema dell’appartenenza ad essere la discriminante fondamentale: anche una caratteristica positiva (per esempio essere un bambino molto intelligente) può rivelarsi un limite, un vincolo, se ostacola l’appartenenza al gruppo di riferimento (in una classe “media”, tale bambino potrebbe annoiarsi, o essere penalizzato dal programma, o dal sentirsi diverso dagli altri).
Anche da un punto di vista pedagogico sarebbero tanti gli spunti: la famiglia incarna un modello educativo molto estremo, proponendo una vita di comunità che nella storia della pedagogia ha avuto predecessori (Summerhill, Makarenko.. molto diversi a tratti, ma accomunati da una forte ideologia di base), ma restiamo nel campo della psicologia che è quello che più, appunto, ci appartiene.