Ali ha gli occhi azzurri: un interessante cambio di prospettiva
Alì ha gli occhi azzurri (film del 2012 diretto da Claudio Giovannesi) è una sorta di “indovina chi viene a cena” al contrario.
Alì non è il nome del protagonista, ma è una citazione di un volume di Pasolini (e di una sua poesia del 1964), un’opera incredibilmente ancora attuale.
Il film, ambientato nella periferia di Ostia, ha come protagonista un sedicenne di nome Nader, nato in Italia da genitori egiziani e mussulmani migrati nel nostro paese anni prima. È una famiglia che si potrebbe definire integrata, cioè in regola, lavoratori, in grado di far studiare i propri figli che vivono l’esperienza dell’identità mista.
è proprio quel che sistemicamente viene chiamata “identità mista” a rappresentare un problema per i genitori, che non accolgono lo stile di vita estremamente occidentalizzato del figlio adolescente (giova qui citare anche un libro fantastico, “Porto il velo e adoro i Queen”, di Sumaya Abdel Qader).
I genitori osteggiano fortemente il legame del ragazzo con la propria fidanzatina italiana, nonché tutta una serie di abitudini (o non abitudini, come l’evitamento della moschea) del figlio. Il clima in casa è fortemente teso. Nader sembra esprimere il proprio disagio spingendosi sul versante della devianza, spintovi però dal suo migliore amico, un ragazzo italianissimo, che lo coinvolge in una rapina in farmacia.
L’escalation dei contrasti con i genitori e delle (dis)avventure di Nader si susseguono nella trama del film, che temporalmente si sviluppa lungo l’arco di una settimana, un periodo emblematicamente fatto diventare dal regista il tempo di un percorso di crescita e formazione personale del protagonista, come tutti noi chiamato a definirsi lungo il continuum tra il bisogno di appartenenza e quello di individuazione, con tutte le variabili specifiche legate al proprio contesto