La letteratura psicologica classifica come lutto patologico diverse reazioni, accomunate dalla presenza di un dolore implacabile ed inestinguibile, vissuto come unica possibilità di mantenere il legame con la persona scomparsa (a differenza del lutto elaborato, in cui questa fase è solo una tappa iniziale di tutto il decorso).
Nella poesia “Dieci giorni”, in cui Ungaretti parla della morte del figlio, vi è un verso particolarmente emblematico per esprimere il dolore tipico di un lutto patologico: “…e t’amo e t’amo ed è continuo schianto!”.
L’espressione del dolore in questo caso si concretizza in tre principali schemi comportamentali: uno di questi è il silenzio, dietro al quale si trincerano tutti i familiari.
La morte e la persona scomparsa diventano un tabù, perché presentificarle con la parola rende intollerabile il dolore. In realtà è proprio non esternando il dolore che lo si mantiene vivo e pervasivo. Non solo, se ci sono bambini occorre infrangere il silenzio per proteggerli: i bambini sono molto più competenti di quanto si possa immaginare dal punto di vista relazionale, anche quando sono molto piccoli.
Essi potrebbero arrivare ad inibire l’espressione della propria sofferenza (e conseguentemente la possibilità di elaborarla) se intuiscono che esprimendola provocherebbero dolore nei familiari. Anche se può sembrare crudele, è necessario offrire loro uno spazio in cui parlare, metterli al corrente della verità e rassicurarli sul fatto che nessuno è andato via per colpa loro.
All’opposto del silenzio vi è il vacuo racconto: si parla sempre e solo della persona scomparsa, la quale diventa una narrativa dominante che soffoca tutte le altre comunicazioni. La persona è ricordata in termini di ideali, e si verifica un’adesione forzata ai valori e ai comportamenti che si ritiene sarebbero stati propri della persona scomparsa.
Tale modalità rischia di esser paralizzante nei confronti delle potenzialità evolutive dei componenti del sistema familiare. Occorre quindi parlare e ricordare anche gli aspetti negativi della persona morta: non è possibile ricucire i lembi dello “strappo” se dall’altra parte vi è l’immagine di una divinità intoccabile anziché la vera persona amata, con i suoi pregi e i suoi difetti (e quindi con la sua umanità).
In alcuni sistemi familiari può inscenarsi un teatro del dolore, una sorta di gara a chi soffre di più (o di meno): è una situazione che si verifica soprattutto con famiglie in cui sono già presenti disturbi alimentari psicogeni, e il cui risultato è un blocco della reale espressione del proprio dolore e delle proprie esigenze (da quelle pratiche a quelle sentimentali): tutto è finalizzato all’esibire (o nascondere) la sofferenza.
Riferimenti bibliografici
BONANNO G.A., WORTMAN C.B., NESSE R.M, Prospective Patterns of Resilience and Maladjustment During Widowhood, Psychology and Aging, 19 (2), pp. 260-271, 2004.
BOWLBY, J., Attaccamento e perdita. Vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino, 1983.
NEIMEYER R., Lessons of loss: A guide to coping. Brunner Routledge, New York, 2000.
UNGARETTI, G. Dieci giorni