Per risolvere i capricci occorre prima capirli
In un precedente articolo su Psicologo Melzo e Psicologo Novate era stata da un’interpretazione sui capricci in ottica di costruzione dei significati tra genitori e bambini: per chi fosse interessato a leggere l’articolo e a entrare nel concreto di alcune situazioni (per esempio: difficoltà ad andare a letto, parolacce, rifiuto di salutare….) è possibile cliccare qui.
In questo articolo puntiamo più l’attenzione nell’interpretazione del capriccio non come di un atto egoistico, cattivo e da censurare, quanto di una modalità comunicativa del bambino.
Preciso subito che con questo non si intende di dover accettare e incentivare condotte di questo tipo, ma che se non si capiscono cause e modalità dei capricci, diviene proibitivo o estenuante cercare di risolverli: spesso infatti la lotta ai capricci finisce con un fallimento educativo (la si dà vinta al bambino per evitare escalation, soprattutto in pubblico) oppure con azioni di forza che anche qualora ottengano l’effetto voluto, insegnano al bambino che è legittimo gridare, picchiare o essere bruschi.
Bisogna quindi capire l’origine del capriccio del bambino: a volte per esempio ci si arrabbia perché un bambino non vuole mangiare, e non ci rendiamo conto che se (per esempio) in quel mattino si è dovuto svegliare presto, siamo stati in giro tutta la mattinata ed è dovuto rimanere sempre sul passeggino (nonostante volesse camminare), si pranza al ristorante (dove evidentemente non ha la possibilità di muoversi in autonomia)..per il bambino rappresenta un’alterazione importante delle proprie abitudini e dei propri ritmi (nonché dei propri bisogni) e sarà più facilmente irritato e irritabile.
È come se il capriccio fosse un modo per scaricare tensioni, una strategia di recupero, così come quando noi adulti, se stressati, tesi, nervosi, feriti… ci lasciamo andare a pianti, scatti di rabbia, introversione, comportamenti di scarico (chi fa sport, chi beve, chi fuma, chi si abbuffa, chi dorme, chi cerca conforto nell’altro…).
Quante volte però diciamo ad un bambino “Non piangere?”
Quante volte invece diciamo, magari ad una persona cara in difficoltà che si confida con noi: “sfogati pure, se ti vien da piangere fallo”..
Sembra paradossale: incentiviamo un adulto a piangere (pur avendo noi adulti anche altri sistemi per sfogarci) e cerchiamo di impedirlo ai bambini.
Bisogna quindi cercare di capire la natura del capriccio del bambino (per quanto possa essere irritante ai nostri occhi), .. domande come “sei arrabbiato perché non puoi correre?” o “sei triste perché non ti possiamo prendere in braccio?” aiutano il bambino a capire che il proprio malessere ha un motivo, che è considerato dall’adulto e che esiste la possibilità di capire ed essere capiti.
L’obiettivo è legittimare la rabbia ed altri sentimenti negativi, ma non una loro espressione “capricciosa”, perché diventa poco utile al bambino e alla nostra sopravvivenza di genitori