Che cosa possiamo imparare, sulla psicologia dell'uomo, dalla tragedia dell'olocausto?
Ci sono eventi e situazioni che sembrano (e dovrebbero) essere incompatibili con la storia del genere umano.
Eppure la storia insegna che non solo ci sono stati eventi drammatici e oltre ogni possibile immaginazione, ma che il loro palesarsi è stato frutto di un lavoro di ricerca, di una pianificazione cognitiva e programmatica di anni.
Il 27 gennaio si celebra ogni anno “la giornata della memoria”, nell’anniversario dell’abbattimento dei cancelli del campo di concentramento di Auschwitz.
Le guerre, le dittature, i campi di concentramento... non sono qualcosa da strumentalizzare o da rendere una sorta di “mal comune mezzo gaudio”: quante volte infatti dalle voci della sinistra si innalzano (giustamente) accuse e condanne per i campi di sterminio dei nazisti, mentre dalle voci della destra si alzano (altrettanto giustamente) accuse e condanne contro quanto avvenuto nei campi di lavoro dell’ex Unione Sovietica o delle Foibe.
Non è sbagliata la corrente politica. È disumano quanto compiuto.
Da un punto di vista storico, l’attore teatrale Paolini ha scritto un ottimo libro, dal significativo titolo “Ausmerzen”, che mostra come l’olocausto fu solo l’ultimo anello di una catena di distruzione di massa per tutti coloro che venivano considerati “mangiatori inutili” (disabili, ammalati...).
Da un punto di vista psicologico, il contributo maggiore e più toccante è da attribuire a Bruno Bettelheim, uno psicoanalista austriaco di origini ebraiche, deportato nei campi di concentramento di Dachau e Buckenwald. Bettelheim fu uno dei "sopravvissuti" ai campi di concentramento, anche se, come altre persone che riuscirono ad essere liberati, si suicidò.
Sopravvivere?
"Sopravvivere" è un testo di Bruno Bettelheim, nel quale l'autore cerca di comprendere come possa funzionare la psicologia di un prigioniero di un campo di concentramento.
Come è possibile sopravvivere in tali contesti?
Quali meccanismi di difesa e di protezione possono intervenire?
Il flim "La vita è bella" di Roberto Benigni mostra l'estremo tentativo da parte di un padre di tutelare il proprio bambino, facendogli percepire una realtà completamente diversa da quella che stavano invece vivendo. Già Freud sosteneva che l'umorismo rappresenti la forma di difesa più raffinata, ma qui si è oltre, si è in presenza di una totale distorsione della rappresentazione della realtà, ed è l'unico modo per tentare di tutelare un bambino.
Ma anche per un adulto, le possibilità non sono molte, e oscillano prevalentemente tra un'alienazione psichica o una disintegrazione psichica.
Per esempio, Bruno Bettelheim evidenzia come tra i prigionieri vi fossero sentimenti di profonda ambivalenza verso altri familiari che si pensavano scampati all'arresto, ma soprattutto, passando dal pensiero all'azione, alla massiccia presenza di comportamenti regressivi, in alcuni casi agiti per cercare di evitare punizioni e "sedurre"/"manipolare" i soldati.
Allo stesso modo, forti ambivalenze erano agite da parte dei detenuti più storici nei confronti dei nuovi, a loro volte vittime dei comportamenti dei più anziani. In diversi casi, questi ultimi agivano come se fossero i militari carcerieri nei confronti dei nuovi arrivati: erano in atto, ad un livello molto più intenso, le dinamiche che lo psicologo americano Zimbardo studiò nel 1971 nella prigione di Stanford.
Oltre le possibilità di libertà: la sindrome del sopravvissuto
Siccome la mente non può rimanere preservata in condizioni così disumane, un'altra difesa molto presente era la presenza di fantasie irrealistiche pensando al futuro, dopo la liberazione.
Come purtroppo lo stesso Bettelheim sapeva, essere un prigioniero di un campo di concentramento era una condizione che non terminava con la liberazione dal campo, ma rimaneva un tratto identitario importante e pervasivo.
Bettelheim studiò infatti anche quella che si definisce "la sindrome del sopravvissuto", ovvero le caratteristiche psicologiche di chi riuscì a "sopravvivere" ai campi di sterminio: si può parlare, per la maggior parte di queste persone, di una sopravvivenza che emotivamente ha costi quasi insostenibili. La pervasività e l'invadenza dei ricordi è tale che solo agendo potenti meccanismi di rimozione si può cercare di non pensare in continuazione a quanto è stato (credo che gli attuali criteri per una diagnosi di disturbo post traumatico da stress non possano che rendere solo in parte l'idea), ma al contempo è difficile arginare vissuti quali sensi di colpa potentissimi per quanto fatto (o non fatto). Le condizioni in cui le persone si trovavano portavano spesso ad una sorta di "mors tua vita mea", per cui si agivano comportamenti distruttivi nei confronti di altri prigionieri del tutto "distonici" e dissonanti rispetto all'esperienza della persona e ai suoi modi soliti di agire.
Una testimonianza molto chiara, in tal senso, è quella offerta dalla milanese Liliana Segre, anch'ella sopravvissuta ai campi di sterminio.
Nelle sue testimonianze la donna mette in luce la presenza di una resilienza impressionante, che mostra come sia possibile, anche nei momenti inimmaginabilmente peggiori, trovare la forza di "mettere una gamba davanti all'altra" (Segre, 2012).
Approfondimenti:
Bettelheim B. (2005) Sopravvivere. Milano: SE Edizioni
Paolini, M. (2012) Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute. Stile Libero.
Benigni ( 1997) La vita è bella. Vittorio Cecchi Gori Group
• Il Corriere della Sera (Edizione Online), 2012, Salvi per Caso. Documentario interattivo. http://video.corriere.it/salvi-per-caso/index.shtml