L'esperienza clinica, ad esempio nello studio di psicologo a Milano, insegna che nessuna persona chiede un intervento psicologico per dimenticare la persona defunta, mentre più comune è la richiesta di "non soffrire più".
Un lutto elaborato non comporta l’assenza di una ferita: come illustrato in un altro articolo, tendiamo sempre a conservare il lutto, in quanto costituisce il modo per mantenere il legame con la persona scomparsa.
La ferita tipica di un lutto elaborato è però una ferita che si è cicatrizzata: il segno rimane, ma consente di continuare a vivere; proprio come le ferite di vecchi traumi fisici: ci sono momenti in cui il dolore si riacutizza, ma si riesce a preservare un funzionamento normale.
"Il dolore per la sua assenza non potrà mai essere più grande della gratitudine per esserci stato". Questa frase tratta dai diari di Etty Hillesum, che l’autrice dedica al marito defunto, è un ottimo esempio di quello che si può considerare un lutto elaborato, nel quale il patrimonio affettivo della persona scomparsa diventa una fonte di ricchezza per i superstiti.
Vorrei a questo punto portare come esempio un episodio accaduto al termine di una serata organizzata dall’Aido (Associazione Italiana Donatori Organi), nella quale presto volontariato come psicologo dal 2004:
era un convegno aperto alla cittadinanza e, come sempre in questi casi, avevamo lasciato spazio alla testimonianza diretta di persone che hanno beneficiato di un trapianto e anche ai familiari di donatori d’organi, cioè parenti stretti di persone decedute improvvisamente e in modo traumatico.
Le testimonianze dei familiari dei donatori sono sempre molto toccanti, soprattutto per coloro che per le prime volte offrono il loro preziosissimo contributo: spesso i racconti sono ricchi di dolore, di commozione, di pianto, talvolta di rabbia.
Al termine di una di queste serate, nella quale avevo presentato un intervento sul lutto, una signora che per la prima volta aveva offerto la propria testimonianza e che si era interrotta un paio di volte per la commozione, mi chiese se considerassi il suo caso un lutto elaborato o patologico (di cui parleremo in un prossimo contributo):
premetto che non avevo mai incontrato la signora prima di allora e non conoscevo la sua storia e i suoi vissuti al di là di quanto appena raccontato, non avevo quindi molti strumenti per poter discriminare con certezza la sua situazione.
Le feci questa premessa, aggiungendo però che sicuramente l’aver parlato in pubblico in quel modo non poteva che esser un segnale positivo e che non doveva lasciarsi spaventare dal pianto, sicuramente facilitato anche dal fatto dell’aver parlato in pubblico per la prima volta.
La signora mi raccontò alcuni particolari della sua storia e dei cambiamenti intercorsi dai primi periodi dopo la perdita del figlio a quella sera: il suo racconto mi permise di rassicurarla sul fatto che sentivo che il suo era un lutto elaborato e che le sue testimonianze, oltre ad esser un dono per gli altri, sarebbero state momenti emotivamente intensi che le avrebbero permesso di osservare come la sua narrazione sarebbe cambiata nel corso del tempo in base alla continua progressione dell’elaborazione del suo lutto.
La signora Viola (chiamiamola così) è oggi una delle testimonianze più presenti nelle nostre serate e negli incontri con gli studenti delle scuole superiori.
Riferimenti bibliografici
BONANNO G.A., WORTMAN C.B., NESSE R.M, Prospective Patterns of Resilience and Maladjustment During Widowhood, Psychology and Aging, 19 (2), pp. 260-271, 2004.
BOWLBY, J., Attaccamento e perdita. Vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino, 1983.
NEIMEYER R., Lessons of loss: A guide to coping, Brunner Routledge, New York, 2000.