18 Luglio. Nelson Mandela e l'integrazione possibile

 Segregazione, assimilazione o integrazione?

Non può un articolo che tratta di psicologia aver la pretesa di spiegare esaustivamente chi sia stato Nelson Mandela, nato il 18 luglio del 1918.

Nel 1993 Mandela vinse il premio Nobel per la pace, per la sua lotta contro l'apartheid.

Apartheid significa "separazione", e indica la politica di segregazione razziale vigente in Sudafrica dal 1948 al 1993, periodo in cui la popolazione nera, sebbene rappresentasse l'80% del totale, era di fatto un gruppo minoritario, ovvero oggetto di discriminazioni e vittima di ingiustizie in virtù di una propria caratteristica culturale, etnica, religiosa o somatica. 

Le persone nere non potevano sposarsi con i bianchi, non potevano accedere ad alcune zone delle città, non potevano salire su mezzi pubblici, dovevano cedere il passo sul marciapiede se incontravano un bianco. Le leggi erano molte, limitavano l'accesso ai posti di lavoro e all'istruzione, confinandoli, a livello abitativo, nelle "bantusan"... in poche parole, erano stati annullati quasi tutti i diritti civili e politici.

Mandela fu tra i più fermi oppositori a tale regime, e nel 1955 scrisse "La carta della libertà", che comprendeva il programma anti-apartheid. 

Nel 1956 venne incarcerato e liberato dopo un processo lungo 5 anni, ma venne arrestato con accusa di alto tradimento l'anno seguente, ottenendo la definitiva amnistia solo nel 1990.

Essendosi ammalato di tubercolosi durante la prigionia, ricevette diverse proposte di mediazione dal Governo, ma le rifiutò tutte, poichè sostenendo la propria innocenza non voleva accettare aiuti diversi dal pieno riconoscimento della propria innocenza e, quindi, della completa scarcerazione.

Soprattutto nella seconda metà degli anni '80 la pressione mondiale nei confronti del Governo Sudafricano diventava via via più crescente e anche all'interno della nazione stessa iniziavano a cambiare, grazie anche al movimento di Mandela, atteggiamenti legati all'Apartheid.

Nel 1994 (solo nel 1994!!!) fu concesso il suffragio universale, grazie al quale il diritto di voto venne esteso anche alla popolazione nera, che, come ricordato all'inizio, costituiva circa l'80% della popolazione. Mandela fu eletto presidente della repubblica sudafricana e l'anno seguente istituì una commissione per investigare sulla violazione dei diritti umani e furono avviate numerose politiche di integrazione sociale, lavorando per una pacificazione sociale tra le diverse comunità etniche della nazione.

Mandela è a oggi l'uomo che ha ricevuto più riconoscimenti internazionali: non solo il premio Nobel della pace nel 1993, ma anche 50 lauree honoris causa e altri 250 riconoscimenti vari per l'azione di integrazione pacifica.

Dal 2009, la giornata di oggi, 18 luglio, è a livello internazionale il Nelson Mandela Day, la giornata internazionale per la promozione della pace, della giustizia e dell'integrazione.

Ma che cos'è, in ottica psicologica, l'integrazione?

Quanto operato dal governo Sudafricano per decenni è stata una politica di segregazione, fondata sull'idea di tenere rigorosamente distinta l'etnia dominante (anche se numericamente in minoranza) dalle altre, considerate inferiori. Tale politica, come dimostrato nella storia in diversi luoghi (si pensi non solo alle leggi razziali del periodo nazifascista, ma anche alla schiavitù negli Stati Uniti del Sud),  nel tempo non regge, ma, soprattutto, è una violazione dei diritti umani e non garantisce il benessere, nemmeno della classe "privilegiata", poichè nonostante le apparenze, le pressioni necessarie a mantenere il controllo sono altissime... e il controllo non è mai ottenibile.

Quali altre possibilità vi sono quando una popolazione è oggetto di processi immigratori da parte di altre culture, o vi sono già più culture sullo stesso territorio?

Capita molto spesso di sentire la parola "integrazione" in modo distorto: "se vengono qua, si devono integrare", è un'espressione molto utilizzata. In realtà, tale concetto di integrazione è erroneo e mistificante: significherebbe che il compito dell'integrazione spetta solo alla cultura minoritaria, i cui membri devono rendersi più il più simile possibile alla cultura dominante. In realtà bisognerebbe chiamare questo processo non integrazione, ma assimilazione. SI tratta di un qualcosa di impossibile, non fosse altro che alcuni tratti somatici, per esempio, non sono modificabili. Non solo, è un meccanismo pericoloso, perchè implicherebbe che le persone della cultura minoritaria dovrebbero abbandonare le proprie radici e le proprie abitudini culturali, in nome "dell'integrazione", oppure esercitarle solo privatamente, alimentando l'idea di essere sbagliati, diversi e non accettati. Tali premesse non potranno mai portare a una convivenza pacifica e sana. Percepirsi come sbagliati porta spesso a meccanismi di disagio psichico, mentre sentirsi percepiti come rifiutati, porta a meccanismi di ribellione.

L'integrazione, come ricorda Cecilia Edelstein, è un processo circolare, non è un compito che tocca unicamente al gruppo minoritario. Si tratta di un processo co-costruito che come esito porta alla creazione di una cultura diversa, nella quale le differenze culturali di ogni gruppo devono essere riconosciute, mantenute e rispettate (da qui la differenza col crogiolo, o melting-pot, dove le culture si fondono in maniera indifferenziata), creando però un insieme nel quale le diversità sono valorizzate.

Non è un processo utopico, è un processo che avviene, bisogna "solo" capire quale sia la forma più utile per tutti da adottare. Non si può essere così ingenui e ottusi da pensare che chiudere le frontiere serva  a difendere la tradizione italiana o la tradizione culturale cattolica. Anche senza alcun processo migratorio, la cultura cambierebbe. Pensate al modello di famiglia, come si è evoluto negli ultimi decenni in Italia: prima le famiglie allargate di tipo patriarcale, poi le famiglie nucleari, poi sempre più crescenti le famiglie monogenitoriali, ricomposte, allargate.. e non trasformazioni avvenute per le migrazioni.

Pensate alla cucina: quanto era elitario, misterioso ed esclusivo andare in un ristorante giapponese. Oggi si può mangiare sushi a ogni angolo di strada. La nostra cucina, la cucina italiana, è cambiata, include stili e alimenti che anni fa non erano conosciuti o accessibili, ma lo sono diventati per i processi migratori (kebab, quinoa, ramen, locali brasiliani, argentini, messicani...)

Per i più difesi, che sono impauriti dalla presenza di stranieri e agiscono spesso movimenti aggressivi o di espulsione, può comunque valere l'idea di Mandela, che sosteneva come lavorare col nemico fosse l'unica soluzione per portarlo dalla propria parte". Un'analisi della qualità della vita (anche della popolazione bianca) in Sudafrica negli anni '70 e in quelli attuali, dovrebbe convincere anche i più resistenti.

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